martedì 28 febbraio 2012

Corte europea diritti dell'uomo, 23 marzo 2010 - Cudak c. Lituania

CONSIGLIO D’EUROPA
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
GRANDE CAMERA

CASO CUDAK c. LITUANIA


(Ricorso no 15869/02)
SENTENZA STRASBURGO
23 marzo 2010

Questa sentenza è definitiva. Essa può subire modifiche di forma.

Nel caso Cudak v. Lituania,

La Corte europea dei diritti dell’uomo, riunitasi nella Grande Camera composta:

Jean-Paul Costa, Presidente, Christos Rozakis, Nicolas Bratza, Peer Lorenzen, Françoise Tulkens, Josep Casadevall,

Ireneu Cabral Barreto, Corneliu Bîrsan, Vladimiro Zagrebelsky, David Thór Björgvinsson, Dragoljub Popović, Ineta Ziemele, Mark Villiger, Giorgio Malinverni, András Sajó, Nona Tsotsoria, Işıl Karakaş, giudici, e da Johan Callewaert, cancelliere aggiunto della Grande Camera,

Dopo aver deliberato in camera di consiglio l’1 luglio 2009 e il 24 febbraio 2010,

Pronuncia la seguente sentenza, adottata in questa data:

PROCEDURA

1. Il caso trae origine dal ricorso (no 15869/02) diretto contro la Repubblica della Lituania e con cui una cittadina di questo Stato, Alicija Cudak (« la ricorrente »), ha adito la Corte il 4 dicembre 2001 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (« la Convenzione »).

2. La ricorrente, che è stata ammessa al beneficio del patrocinio legale, è rappresentata da K. Uczkiewicz, avvocato di Wrocław. Il governo lituano (« il Governo »)è rappresentato dal proprio agente, E. Baltutytė.

3. La ricorrente allega una violazione del proprio diritto di accesso ad un giudice, garantito dall’articolo 6 § 1 della Convenzione.

4. Il ricorso veniva assegnato alla terza sezione della Corte (articolo 52 § 1 del regolamento). Il 2 marzo 2006, veniva dichiarato ricevibile da una camera della suddetta sezione, composta dai seguenti giudici: B. M. Zupančič, J. Hedigan, L. Caflisch, C. Bîrsan, A. Gyuluman, R. Jaeger e E. Myjer, nonché da V. Berger, cancelliere di sezione. Il 27 gennaio 2009, una camera della seconda sezione, composta dai seguenti giudici: F. Tulkens, I. Cabral Barreto, V. Zagrebelsky, D. Popović, A. Sajó, I. Karakaş e I. Ziemele, nonché da S. Dollé, cancelliere di sezione, rimetteva il caso alla Grande Camera, senza che alcuna delle parti si opponesse (articolo 30 della Convenzione e 72 del regolamento).

5. La composizione della Grande Camera veniva stabilita conformemente agli articoli 27 §§ 2 e 3 della Convenzione e 24 del regolamento.

6. A causa dell’assenza del J. Hedigan, giudice membro di diritto del Governo in relazione alla Lituania nella presente controversia, il Governo ha nominato I. Ziemele in qualità di giudice ad hoc (articoli 27 § 2 della Convenzione e 29 § 1 del regolamento).

7. Sia la ricorrente che il Governo hanno depositato le loro osservazioni scritte sul merito della controversia.

8. Un’udienza pubblica si è svolta nel Palazzo dei diritti dell’uomo, a Strasburgo, l’1 luglio 2009 (articolo 59 § 3 del regolamento).

Sono comparsi:

– per il Governo E. BALTUTYTĖ, Rappresentante del Governo, rappresentante; K. BUBNYTĖ-MONVYDIENĖ, Capo del dipartimento di rappresentanza dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, avvocato;
– per la ricorrente K. UCZKIEWICZ, avvocato, avvocato, B. SLUPSKA-UCZKIEWICZ, avvocato, avvocato.

La Corte ha ascoltato nelle loro dichiarazioni gli avvocati K. Uczkiewicz e E. Baltutytė.

IN FATTO

I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

9. La ricorrente è nata nel 1961 e risiede a Vilnius.

10. L’1 novembre 1997 la ricorrente fu assunta dall’ambasciata della Repubblica di Polonia (« l’ambasciata ») a Vilnius per svolgere il ruolo di segretaria e centralinista (korespondentė-telefonistė).

11. Il contratto di lavoro precisava al suo articolo 1 che le attribuzioni e i compiti della ricorrente erano limitati dal campo delle sue funzioni [di segretaria-centralinista]. Se la ricorrente vi avesse consentito, ella avrebbe potuto vedersi assegnati altri compiti, non coperti dal contratto. In tal caso si doveva concludere un nuovo contratto. Secondo l’articolo 6 del contratto, la ricorrente doveva osservare le leggi lituane, era responsabile dei danni che poteva causare al suo datore di lavoro e poteva essere assoggettata a procedure disciplinari in caso di inadempimento delle sue obbligazioni professionali e delle norme di sicurezza sul suo luogo di lavoro. La ricorrente poteva percepire un compenso, delle indennità, delle gratifiche o essere ammessa al beneficio di ferie in caso di lavoro supplementare. L’articolo 8 prevedeva che le controversie nascenti dal contratto dovevano essere risolte secondo le fonti del diritto lituano: la Costituzione, la legge sui contratti di lavoro, la legge sulla remunerazione del lavoro, la legge sulle ferie, le legge sulla sicurezza sociale dei salariati. Infine, il contratto poteva essere sciolto in base agli articoli 26, 27, 29 e 30 della legge sui contratti di lavoro (adottata il 28 novembre 1991 e modificata a più riprese successivamente).

12. Le funzioni della ricorrente – così come descritte in un allegato al contratto di lavoro – includono le seguenti mansioni:

« 1. Controllare il centralino dell’ambasciata e del consolato generale e registrare le conversazioni telefoniche internazionali.
2. Dattilografare i testi redatti in lituano o in polacco.
3. Garantire l’invio e il ricevimento di fax.
4. Fornire informazioni in polacco, in lituano e in russo.
5. Aiutare nell’organizzazione di piccoli ricevimenti e aperitivi.
6. Fotocopiare documenti.
7. Espletare altri lavori su richiesta del Capo della rappresentanza. »

13. Nel 1999 la ricorrente si rivolgeva al mediatore per le pari opportunità, lamentando di aver subito molestie sessuali da parte di uno dei suoi colleghi, membro del personale diplomatico dell’ambasciata. Dopo un’indagine il mediatore stendeva un rapporto secondo il quale la ricorrente era stata effettivamente vittima di molestie sessuali. La ricorrente afferma che, a causa dello stato di tensione in cui si trovava durante il suo lavoro, si ammalava.

14. In ferie per malattia dall’1 settembre al 29 ottobre 1999, si presentava a lavoro lo stesso 29 ottobre ma ella non fu autorizzata a entrare nella sede dell’ambasciata. Il 22 novembre 1999 ella si presentava nuovamente a lavoro si vedeva nuovamente rifiutare l’ingresso. Accadeva lo stesso il 23 novembre 1999.

15. Il 26 novembre 1999 la ricorrente indirizzava all’ambasciata una lettera informando di questi incidenti. Il 2 dicembre 1999 ella si vedeva notificare il suo licenziamento per assenza dal lavoro dal 22 al 29 novembre 1999.

16. La ricorrente intentava azione civile, reclamando un risarcimento per il licenziamento illegittimo. Ella non chiedeva la sua reintegrazione. Il Ministro polacco degli Affari Esteri emetteva una nota verbale eccependo l’immunità dalla giurisdizione dinanzi ai tribunali lituani. Il 2 agosto 2000 il tribunale regionale di Vilnius metteva concludeva il processo dichiarandosi incompetente. Il 14 settembre 2000 la corte d’appello confermava la decisione. La decisione definitiva fu adottata dalla Corte Suprema il 25 giugno 2001.

17. La Corte Suprema dichiarava, in particolare, che l’accordo sull’assistenza giuridica, concluso tra la Lituania e la Polonia nel 1993, non risolveva la questione dell’immunità degli Stati, che la Lituania non aveva adottato alcuna legge in materia e che la giurisprudenza interna sul punto era ancora incerta. Così la Corte Suprema giudicava appropriato di statuire essa stessa sulla controversia alla luce dei principi generali del diritto internazionale, e soprattutto della Convenzione europea sull’immunità degli Stati del 1972.

18. La Corte suprema osservava che l’articolo 479 del codice di procedura civile lituano, così come in vigore al tempo, stabiliva il principio dell’immunità assoluta degli Stati, ma questa disposizione non era più applicata nella prassi. Aggiungeva che la prassi internazionale dominante portava ad accogliere un’interpretazione restrittiva dell’immunità degli Stati, in virtù della quale tale immunità non può essere riconosciuta che per gli atti sovrani (acta jure imperii) e non invece per gli atti di natura commerciale o pertinenti di diritto privato (acta jure gestionis). La Corte Suprema, in particolare, precisava:
« (...) ad avviso della Corte Suprema è possibile applicare il principio dell’immunità relativa alla Repubblica di Polonia Tenuto conto del fatto che la Repubblica di Lituania riconosce che i cittadini stranieri possono intentare un’azione avente ad oggetto una controversia di diritto privato, deve ammettersi che, per difendere i propri diritti, una persona fisica o giuridica della Repubblica di Lituania può agire contro uno Stato straniero.
È allora necessario stabilire se nel caso di specie la relazione tra la ricorrente e la Repubblica di Polonia ricade nella sfera del diritto pubblico (acta jure imperii) o nella sfera del diritto privato (acta jure gestionis). Al di là di tale questione, altri criteri sono applicabili che dovrebbero permettere [alla Corte] di determinare se lo Stato convenuto gode dell’immunità (...) nelle controversie di lavoro. Questi criteri soni, in particolare, i seguenti: la natura del luogo di lavoro, lo status del lavoratore, il legame tra lo Stato di impiego e lo Stato del tribunale e la natura della azione.
Con riguardo all’eccezione dell’immunità invocata dal Ministro degli Affari Esteri della Repubblica di Polonia (...), è possibile concludere che esiste una relazione di servizio pubblico retta dal diritto pubblico (acta jure imperii) tra la ricorrente e l’ambasciata della Repubblica di Polonia e che la Repubblica di Polonia può pretendere l’immunità dalla giurisdizione. Questa conclusione è corroborata da altri criteri. Per quanto concerne la natura del luogo di lavoro, è opportuno rilevare che la funzione essenziale dell’ambasciata (...) è direttamente legata all’esercizio della sovranità della Repubblica di Polonia. Per quanto riguarda lo status del lavoratore (...), le parti hanno certamente concluso un contratto di lavoro, ma la nozione stessa di lavoro da centralinista implica che il rapporto che lega le parti è vicino a quello che caratterizza la nozione di servizio pubblico (...). Quanto al reale campo delle funzioni della ricorrente, la Corte non ha potuto ottenere alcuna informazione che le permettesse di definirlo. Se ci si ferma alla denominazione dell’impiego, si può concludere che le funzioni di cui l’interessata è stata investita, in una certa misura, facilitano la Repubblica di Polonia nell’esercizio delle sue funzioni sovrane. (...) È opportuno anche stabilire se lo Stato di impiego e lo Stato del tribunale adito, nella misura in cui un giudice dello Stato sul cui territorio si svolge il lavoro in questione è meglio piazzato per risolvere una controversia discendente dal rapporto di lavoro. A tal riguardo, tocca riconoscere che l’esercizio dei poteri sovrani dello Stato del foro è rigorosamente limitato per quanto concerne le ambasciate, anche se non si tratta, per essere esatti, di territori stranieri (articolo 11 § 2 della legge sullo statuto delle rappresentanze diplomatiche degli Stati stranieri). Quanto alla natura dell’azione (...), è opportuno rilevare che una domanda tendente a far dichiarare l’illegittimità di un licenziamento ed a far ottenere un risarcimento non può considerarsi in pregiudizio della sovranità di un [altro] Stato, poiché tale domanda riguarda solo l’aspetto economico della relazione giuridica controversa [;] poiché non è stata formulata alcuna domanda di reintegrazione (...). Tuttavia, non è solo in base a questi criteri che si può affermare che la Repubblica di Polonia non può non invocare il beneficio dell’immunità dalla giurisdizione nel caso di specie. (...) [La ricorrente] non ha allegato alcun [altra] prova che tendesse a dimostrare l’impossibilità per la Repubblica di Polonia di beneficiare dell’immunità dalla giurisdizione (articolo 58 del codice di procedura civile).
Con riguardo ai criteri suddetti, ed al desiderio della Lituania e della Polonia di mantenere relazioni bilaterali buone (...) ed alla necessità di rispettare il principio di uguaglianza tra gli Stati (...), la camera conclude che le giurisdizioni inferiori si sono giustamente dichiarate incompetenti a conoscere della controversia.
(...)
La Corte Suprema nota che sia il tribunale regionale di Vilnius che la Corte d’appello hanno fondato la decisione di dichiarare l’immunità dalla giurisdizione della Repubblica di Polonia solo fatto che essa ha rifiutato di prendere parte al processo Queste autorità giurisdizionali non hanno esaminato la questione della dichiarazione dell’immunità relativa dalla giurisdizione alla luce dei criteri impiegati dalla Corte Suprema. Tuttavia, questa violazione di norme procedurali, ad avviso della Corte Suprema, non costituisce motivo di annullamento delle decisioni delle giurisdizioni inferiori. (...)
La dichiarazione dell’immunità dalla giurisdizione da parte delle autorità giurisdizionali della Repubblica di Lituania non impedisce alla ricorrente di intentare un’azione dinanzi alle giurisdizioni polacche. »

II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

19. Non esiste in Lituania una legge speciale che disciplini la questione dell’immunità degli Stati. Di solito il problema è risolto dai tribunali caso per caso, con riferimento alle disposizioni di diverse convenzioni bilaterali e multilaterali.

20. L’articolo 479 § 1 del codice di procedura civile del 1964 (che si applicava all’epoca dei fatti e che è rimasto in vigore fino all’1 gennaio 2003) stabiliva la regola dell’immunità assoluta:
« La competenza sulle azioni dirette contro gli Stati stranieri e l’adozione di misure di espropriazione e di esecuzione relative ai beni di uno Stato straniero non sono possibili se non con il consenso delle istituzioni competenti dello Stato straniero riguardato. »

21. Il 5 gennaio 1998 la Corte Suprema adottava una decisione sul caso Stukonis c. Ambasciata americana riguardante un’azione, diretta contro l’Ambasciata americana a Vilnius, per un licenziamento illegittimo. La Corte giudicava l’articolo 479 § 1 del codice di procedura civile del 1964 inadeguato alla luce della mutevole realtà delle relazioni internazionali e del diritto internazionale pubblico. La Corte Suprema notava la tendenza della dottrina del diritto internazionale a restringere, per determinate categorie di controversie, la possibilità per uno Stato straniero di invocare l’immunità dalla giurisdizione dinanzi ai tribunali del foro. Essa decideva che la giurisprudenza lituana doveva seguire la dottrina dell’immunità relativa degli Stati. In particolare, la Corte si esprimeva nel modo seguente:
« L’immunità degli Stati non significa immunità dall’avvio di un processo civile, ma immunità dalla giurisdizione dei tribunali. La Costituzione stabilisce il diritto di adire un giudice (articolo 30) (...). Tuttavia, la capacità per un giudice di difendere i diritti di un ricorrente, quando il convenuto è uno Stato straniero, dipende dalla questione di conoscere se tale Stato straniero richiede l’applicazione della dottrina dell’immunità degli Stati (...). Al fin di determinare se il caso dia o non dia luogo all’applicazione dell’immunità (...), è necessario determinare la natura dei rapporti giuridici fra le parti (...) ».

22. Il 21 dicembre 2000 la Corte Suprema della Lituania, riunitasi in formazione plenaria, rendeva una decisione sulla « prassi dei tribunali della Repubblica di Lituania relativa all’applicazione delle norme del diritto internazionale privato » (Teismų Praktika 2001, no 14). Veniva precisato che se l’articolo 479 del codice di procedura civile stabiliva una norma, in virtù della quale « gli Stati Stranieri [e] gli agenti diplomatici e consolari di uno Stato straniero beneficiano dell’immunità della giurisdizione dinanzi ai tribunali lituani », tale norma non consacrava l’immunità degli Stati stranieri che per i « rapporti giuridici retti dal diritto pubblico ». La Corte Suprema sottolineava che, per stabilire se una controversia presentasse un elemento di estraneità rientrante o meno nella competenza delle autorità giurisdizionali lituane, il giudice deve tener conto del riconoscimento e dell’esecuzione (o del rifiuto di ciò) della suddetta sentenza nello Stato straniero di riferimento . Se la controversia rientra anche nella competenza del giudice straniero il giudice del foro può rinunciare ad esercitare la sua competenza e può invitare il ricorrente ad adire un giudice dello Stato straniero in cui la sentenza doveva essere eseguita.
Le giurisdizioni inferiori dovevano conformarsi a questa interpretazione resa dalla Corte Suprema.

23. Il 6 aprile 2007, la Corte Suprema adottava una decisione rispetto ad una controversia che presentava un’analogia molto netta con quella della ricorrente: si trattava del caso S.N. c. l'Ambasciata della Repubblica di Svezia. La Corte sottolineava che « (...) anche se la repubblica di Svezia non ha adottato una legge che disciplina la materia, risulta nondimeno dalla giurisprudenza dei tribunali interni che essa aderisce alla dottrina dell’immunità relativa ». Nel caso di specie, e benché esse siano prive di carattere vincolante, si era tenuto conto delle disposizioni della Convenzione sulle immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni del 2 dicembre 2004, in quanto esse corrispondono ad una certa tendenza del diritto internazionale in materia di immunità degli Stati. La Corte Suprema, tra l’altro, basandosi sulla prassi delle relazioni internazionali, ha osservato che la giurisprudenza dei tribunali di questi due Stati – la Lituania e la Svezia – conferma una loro adesione alla dottrina dell’immunità relativa degli Stati, in virtù della quale uno Stato non può invocare l’immunità dalla giurisdizione se la controversia è di diritto privato. In quel caso, dunque, la Svezia non poteva opporsi all’esame della controversia da parte delle autorità giurisdizionali lituane. Ma la Corte Suprema giudicava che, nella specie, la controversia opponente le parti trovava la propria origine in una relazione di diritto pubblico e non in un rapporto di lavoro di diritto privato.

24. La Corte Suprema constatava, inoltre, che non esiste una prassi internazionale uniforme degli Stati che permetta di distinguere i membri del personale delle missioni diplomatiche degli Stati stranieri, partecipanti all’esercizio della forza pubblica dello Stato che rappresentano, dai membri del personale che non vi partecipano. In mancanza di norme internazionali giuridicamente vincolanti, è dunque lecito per ogni Stato prendere decisioni proprie in materia.

III. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNAZIONALE PERTINENTI

Omissis

IN DIRITTO

I. SULL’ECCEZIONE PRELIMINARE DEL GOVERNO
25. Il Governo sostiene che, sia in teoria che in pratica, è possibile per la ricorrente portare dinanzi alle autorità giurisdizionali polacche la sua doglianza riguardante la risoluzione del suo contratto con l’ambasciata polacca di Vilnius, come peraltro era stata invitata a ciò dalla Corte Suprema lituana. Queste autorità avevano competenza in materia e avrebbero applicato il diritto materiale lituano. In effetti, il contratto di lavoro dell’interessata prevedeva una clausola per la quale tutte le controversie discendenti da tale contratto dovevano essere risolte in base alle norme del diritto lituano. Nella misura in cui l’articolo 479 § 1 del codice di procedura civile e la relativa giurisprudenza escludevano la competenza delle autorità giurisdizionali lituane, in quanto la Repubblica di Polonia aveva domandato di beneficiare dell’immunità dalla giurisdizione, la suddetta clausola del contratto copriva solamente l’applicazione delle norme del diritto materiale lituano. In più, in base al diritto lituano, alla ricorrente non è precluso ricorrere al sistema giurisdizionale polacco, che è sempre competente a conoscere delle sue doglianze concernenti l’estinzione del suo contratto di lavoro.

26. La Corte ricorda che il presente ricorso è stato dichiarato ricevibile il 2 marzo 2006. Anche supponendo che l’argomento appena esposto debba analizzarsi come un’eccezione a titolo di non esaurimento dei ricorsi interni da parte della ricorrente, e che al Governo non è precluso sollevarla, la Corte rileva che l’articolo 35 § 1 della Convenzione non riguarda, in principio, che le vie di ricorso messe a disposizione del ricorrente dallo Stato convenuto. Tale non è il caso, nella fattispecie in esame, dei ricorsi da esercitare in Polonia.

27. Inoltre, La Corte nota che il contratto di lavoro tra la ricorrente e l’ambasciata polacca precisava, al suo articolo 8, che le controversie a cui il contratto potrebbe dar luogo, saranno risolte in applicazione del diritto lituano, così come risulta dalla Costituzione e dalle leggi sui contratti di lavoro, sulla remunerazione del lavoro, sulle ferie e sulla sicurezza sociale dei lavoratori salariati. Si può allora sostenere che se la ricorrente avesse portato le proprie doglianze dinanzi ai giudici polacchi, essi avrebbero deciso di applicare il diritto materiale scelto dalle parti, e cioè il diritto lituano. Tuttavia, la Corte ritiene che tale via di ricorso, anche a voler supporre che sia teoricamente concepibile, non sarebbe molto realistica nelle circostanze del caso di specie. Imporne l’utilizzo avrebbe comportato per la ricorrente serie difficoltà pratiche, incompatibili con il rispetto del suo diritto di accesso a un giudice, che, come tutti gli altri diritti della Convenzione, deve essere interpretato in modo da renderlo concreto ed effettivo piuttosto che teorico ed illusorio (si veda, tra gli altri, il caso Partito comunista unificato turco e altri c. Turchia, § 33, Recueil des arrêts et décisions 1998-I). Ora, la ricorrente è di nazionalità lituana, era stata assunta in Lituania in virtù di un contratto che rinviava al diritto lituano e la Repubblica di Polonia aveva essa stessa accettato che il contratto fosse retto dal diritto lituano.

28. Ne consegue che il ricorso della ricorrente dinanzi alle autorità giurisdizionali polacche non sarebbe stato considerato, nel caso di specie, come un ricorso accessibile ed effettivo.

II. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE

29. La ricorrente sostiene che, facendo valere l’eccezione dell’immunità dalla giurisdizione del governo polacco, le autorità giurisdizionali lituane l’hanno privata del suo diritto di accesso a un giudice ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione, che, per la parte pertinente al caso di specie, è così formulato:
« 1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, (...) da un tribunale (...) il quale sia chiamato a pronunciarsi (...) sui suoi diritti e doveri di carattere civile (...). »

A. Sull’applicabilità dell’articolo 6 § 1

30. Riferendosi alla sentenza resa della Corte sul caso Vilho Eskelinen e altri c. Finlandia ([GC], ricorso n° 63235/00, § 62, CEDH 2007-IV), e, in particolare, alle due condizioni che devono essere rispettate affinché l’articolo 6 possa applicarsi in questo genere di controversie, il Governo sostiene che il ricorso deve essere dichiarato irricevibile ratione materiae rispetto alle disposizioni della Convenzione.

31. Secondo il Governo, risulta dalla giurisprudenza della Corte Suprema della Lituania, e soprattutto dalle sentenze del 5 gennaio 1998 e del 6 aprile 2007, nonché dalla sentenza resa il 25 giugno 2001 sulla causa della ricorrente, che tutte le persone impiegate nella missione diplomatica di uno Stato straniero, comprese quelle che lavorano nei servizi amministrativi e tecnici, devono essere considerate come individui che contribuiscono, in un modo o nell’altro, allo svolgimento delle funzioni legate all’esercizio della sovranità dello Stato riguardato e che dunque servono gli interessi pubblici di questo Stato. Il tipo di funzioni esercitate dalla ricorrente all’ambasciata della Polonia a Vilnius giustificava l’applicazione dell’immunità degli stati alla Polonia. In effetti, l’interessata aveva un accesso diretto all’insieme dei documenti e delle attività ufficiali dell’ambasciata. Di conseguenza ella era ben più di un semplice funzionario tecnico.

32. La ricorrente afferma, da parte sua, che intentando un’azione dinanzi alle autorità giurisdizionali lituane, ella aveva cercato di contestare la legittimità del suo licenziamento al fine di ottenere un risarcimento per questo motivo. Ella reputa che tanto il suo contratto di lavoro che la sua azione per licenziamento illegittimo rivestivano, a titolo principale, carattere di diritto privato.

33. La Corte ricorda che secondo la sopracitata sentenza sul caso Vilho Eskelinen, affinché lo Stato convenuto possa invocare lo status di pubblico dipendente di un ricorrente, al fine di sottrarlo alla protezione garantita dall’articolo 6, due condizioni devono essere rispettate. In primo luogo, il diritto interno dello Stato riguardato deve avere espressamente escluso il diritto di accesso a un giudice per quel posto di lavoro o per la categoria di lavoratori in questione. In secondo luogo, questa deroga deve riposare su motivi obiettivi legati all’interesse dello Stato (§ 62).

34. È opportuno nondimeno sottolineare che questa sentenza riguardava le relazioni fra lo Stato e i propri funzionari, le quali non sono in gioco nel caso di specie: la ricorrente, di nazionalità lituana, infatti, era stata assunta dall’ambasciata polacca con un contratto stipulato fra lei e, in ultima analisi, la Repubblica di Polonia. Ella non poteva, dunque, dinanzi alle autorità giurisdizionali lituane, essere considerata una pubblica dipendente della Lituania.

35. Tuttavia, anche a voler supporre che la giurisprudenza del caso Vilho Eskelinen possa applicarsi, mutatis mutandis, al caso di specie, non si potrebbe ragionevolmente sostenere che la seconda condizione sia soddisfatta nel caso della ricorrente. Infatti, risulta dall’allegato al contratto di lavoro di costei che le sue funzioni all’ambasciata polacca consistevano nel controllare il centralino dell’ambasciata e del consolato generale e registrare le conversazioni telefoniche internazionali; nel dattilografare testi redatti in lituano o in polacco; nel garantire l’invio e il ricevimento di fax; nel fornire informazioni in polacco, in lituano e in russo; nell’aiutare ad organizzare piccoli ricevimenti e aperitivi; nel fotocopiare documenti (paragrafo 12 supra). Orbene, ad avviso della Corte l’esercizio di tali funzioni non nascerebbe proprio da « motivi oggettivi legati all’interesse dello Stato » nel senso della sopracitata sentenza Vilho Eskelinen.

36. Resta allora da verificare se la controversia in questione verte su un diritto di carattere civile ai sensi dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. A tal proposito la Corte ricorda che l’articolo 6 § 1 di applica alle « controversie » relative ai « diritti » di carattere civile che possano dirsi, almeno in modo sostenibile, riconosciuti nel diritto interno, siano o meno tutelati anche dalla Convenzione (si veda, in particolare il caso Editions Périscope c. Francia, 26 marzo 1992, Serie A no 234-B, § 35, e il caso Zander c. Svezia, 25 novembre 1993, § 22, Serie A no 279-B). La controversia può anche vertere sull’esistenza stessa di un diritto, sulla sua portata e sulle sue modalità di esercizio; infine, l’esito del processo deve essere direttamente determinante per il diritto in questione (caso Vilho Eskelinen sopra citato, § 40).

37. La Corte ritiene che, in questo caso, tali condizioni sono soddisfatte, in quanto il ricorso della ricorrente verte sulla richiesta di un risarcimento per il licenziamento illegittimo.

38. Ne consegue che l’articolo 6 § 1 della Convenzione è applicabile nel processo dinanzi alle giurisdizioni lituane.

B. Sull’osservanza dell’articolo 6 § 1

1. Gli argomenti delle parti

a. La ricorrente

39. La ricorrente sostiene che non è stata mai allegata al suo contratto di lavoro una descrizione delle sue funzioni ufficiali. L’impiego subalterno da lei svolto non comportava alcun compito o funzione di natura tale da giustificare la decisione di applicare la dottrina dell’immunità degli Stati, nel senso delle disposizioni pertinenti della Convenzione di Basilea o della Convenzione delle Nazioni Unite.

b. Il Governo

40. Il Governo dichiara che la limitazione imposta al diritto della ricorrente di accedere a un giudice persegue uno scopo legittimo: promuovere il rispetto dei principi di indipendenza e di uguaglianza sovrana degli Stati, conformemente al diritto interno e al diritto internazionale pubblico.

41. Per quanto riguarda la proporzionalità della limitazione, il Governo sottolinea che gli strumenti giuridici internazionali e la giurisprudenza di un certo numero di Stati considerano che, nell’ambito delle controversie di lavoro, l’immunità degli stati non è limitata quando il datore di lavoro è un’ambasciata straniera. Sia in Lituania che in Polonia, le questioni riguardanti l’immunità degli stati sono rette dal diritto internazionale consuetudinario, non essendo state tali questioni risolte attraverso convenzioni bilaterali. A sostegno della sua tesi il Governo invoca l’articolo 32 della Convenzione di Basilea, l’articolo 38 §2 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche e l’articolo 11 § 2 c) della Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità dalla giurisdizione degli Stati e dei loro beni. Il Governo sostiene che gli Stati godono di un potere discrezionale in materia di assunzione per impieghi pubblici. Ciò vale anche in materia di « licenziamento » o di « risoluzione del contratto » dei pubblici dipendenti dopo un’indagine o un’investigazione nel quadro del potere di controllo o del potere disciplinare esercitato dallo Stato datore di lavoro.

42. Nel caso di specie, se l’ambasciata polacca ha eccepito l’immunità degli Stati, per il Governo, è in parte dovuto all’origine della controversia – nata dall’accusa di violenza sessuale rivolta contro un membro del personale diplomatico dell’ambasciata – che i giudici lituani non avrebbero potuto esaminare correttamente senza interrogare persone che godevano dell’immunità diplomatica.

43. Così, quindi, l’oggetto della domanda presentata dalla ricorrente ai giudici avrebbe implicato lo svolgimento di indagini nella sfera pubblica e sovrana della Polonia. La Corte Suprema lituana sarebbe pervenuta ad una decisione ragionevole prendendo in considerazione soprattutto il fatto che, invocando l’immunità dalla giurisdizione, la Repubblica di Polonia riteneva che la controversia tra la ricorrente e l’ambasciata polacca non fosse un’ordinaria controversia di lavoro.

44. In ogni caso, anche se le autorità giurisdizionali lituane si fossero dichiarate competenti a conoscere della domanda della ricorrente e se avessero deciso nel merito di essa (affermando per esempio che il licenziamento era stato illegittimo e riconoscendo alla ricorrente una somma di denaro), sarebbe stato impossibile eseguire la sentenza nei confronti della parte convenuta, cioè lo Stato polacco. Infatti, quest’ultimo aveva fatto conoscere, tramite una nota diplomatica, il suo rifiuto formale di partecipare al processo in qualità di parte convenuta.

2. Valutazione della Corte

a. Richiamo dei principi che emergono dalla giurisprudenza

45. La Corte ricorda che il diritto ad un processo equo, garantito dall’articolo 6 § 1 della Convenzione, deve interpretarsi alla luce del principio della preminenza del diritto, che esige l’esistenza di una via giurisdizionale effettiva che permetta di rivendicare i diritti civili (caso Běleš e altri c. Repubblica Ceca, ricorso no 47273/99, § 49, CEDH 2002-IX). Ogni individuo possiede il diritto a che un giudice conosca di tutte le controversie relative ai suoi diritti e alle sue obbligazioni di carattere civile. È così che l’articolo 6 § 1 consacra il « diritto a un giudice », di cui il diritto di accesso, vale a dire il diritto di ricorrere ad un giudice civile, ne costituisce un aspetto (caso Golder c. Regno Unitoi, sentenza del 21 febbraio 1975, Serie A no 18, p. 18, § 36 ; caso Prince Hans-Adam II del Liechtenstein c. Germania [GC], ricorso no 42527/98, § 43, CEDH 2001-VIII).

46. Tuttavia il diritto di accesso a un giudice, riconosciuto dall’articolo 6 § 1 della Convenzione, non è assoluto : esso si presta a limitazioni implicitamente ammesse, poiché richiede per sua stessa natura una regolamentazione dello Stato. Gli Stati contraenti godono in materia di un certo margine di apprezzamento. Appartiene invece alla Corte di stabilire in ultima analisi il rispetto delle esigenze della Convenzione; la Corte deve verificare che le limitazioni attuate non restringano l’accesso dell’individuo in maniera o al punto tale che il diritto si trovi pregiudicato nella sua stessa sostanza. Inoltre, tale limitazione del diritto di accesso a un giudice non si concilia con l’articolo 6 § 1 se non tende ad uno scopo legittimo e se non esiste un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo prefissato (caso Waite e Kennedy c. Germania [GC], ricorso no 26083/94, § 59, CEDH 1999-I; caso T.P. e K.M. c. Regno Unito [GC], ricorso no 28945/95, § 98, CEDH 2001-V; caso Fogarty c. Regno Unito [GC], ricorso no 37112/97, CEDH 2001-XI, § 33).

47. D’altronde la Convenzione deve interpretarsi alla luce dei principi enunciati dalla Convenzione di Vienna del 13 maggio 1969 sul diritto dei trattati, che è enuncia nel suo articolo 31 § 3 c) che bisogna tener conto di « ogni norma pertinente di diritto internazionale applicabile alle relazioni tra le parti ». Infatti, la Convenzione, compreso il suo articolo 6, non deve interpretarsi a vuoto. Così la Corte stessa non deve perdere di vista il carattere specifico del trattato di garanzia collettiva dei diritti dell’uomo che riveste la Convenzione, ma deve tener conto anche dei principi pertinenti di diritto internazionale, compresi quelli relativi alla concessione dell’immunità agli Stati (caso Fogarty, sopra citato, § 35).

48. Di conseguenza, in linea generale, non si possono considerare come una restrizione sproporzionata al diritto di accesso al giudice, così come consacrato dall’articolo 6 § 1, le misure adottate da un’Alta Parte Contraente le quali riflettono le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute in materia di immunità degli Stati. Così come il diritto di accesso a un giudice è inerente alla garanzia dell’equo processo riconosciuta da questo articolo, allo stesso modo certe restrizioni all’accesso devono essere sostenute per essergli applicate; si trova un esempio fra le limitazioni generalmente ammesse dalla Comunità degli Stati come rilevanti dalla dottrina dell’immunità degli Stati (caso Kalogeropoulou e altri c. Grecia e Germania, (déc.), ricorso no 59021/00, CEDH 2002-X ; caso Fogarty, § 36).

49. È opportuno anche ricordare che la Convenzione ha per scopo di proteggere dei diritti non già teorici e illusori, ma concreti e effettivi. L’osservazione vale egualmente per il diritto d’accesso al giudice, visto il posto eminente che il diritto a un processo equo occupa in una società democratica (si veda il caso Aït-Mouhoub c. Francia, sentenza del 28 ottobre 1998, Recueil 1998-VIII, p. 3227, § 52). Sarebbe incompatibile con la preminenza del diritto in una società democratica e con il principio fondamentale che sottende l’articolo 6 § 1, cioè che le azioni civili devono poter esser portate dinanzi a un giudice, che uno Stato, senza riserve o senza controllo degli organi della Convenzione, potesse sottrarre alla competenza dei giudici tutta una serie di azioni civili o esonerare da ogni responsabilità delle categorie di individui (si veda il caso Fayed c. Regno Unito, sentenza del 21 settembre 1994, Serie A no 294-B, p. 49, § 65).

50. Così, nel caso in cui l’applicazione del principio dell’immunità giurisdizionale dello Stato ostacoli l’esercizio del diritto di accesso alla giustizia, la Corte deve verificare se le circostanze del caso giustificano tale ostacolo.

b. Applicazione al caso di specie

51. La Corte deve innanzitutto verificare se la limitazione persegue uno scopo legittimo. A tal riguardo essa ricorda che l’immunità degli Stati, consacrata dal diritto internazionale, è nata dal principio par in parem non habet imperium, in virtù del quale uno Stato non può essere sottoposto alla giurisdizione di un altro Stato. Essa ha affermato che la concessione dell’immunità ad uno Stato da un processo civile persegue lo scopo legittimo di osservare il diritto internazionale al fine di favorire la cortesia e i buoni rapporti fra gli Stati nel rispetto della sovranità di un altro Stato .

52. Nel caso Fogarty sopra citato, la ricorrente aveva intentato con successo una prima azione per discriminazione sessuale contro gli Stati Uniti, dopo il suo licenziamento da un posto di assistente amministrativa all’ambasciata americana di Londra. Dopo molti altri tentativi infruttuosi per farsi riassumere dall’ambasciata, la ricorrente intentava allora una seconda azione per discriminazione sessuale davanti ai giudici britannici, la quale tuttavia si scontrava con l’immunità dal processo civile che era stata eccepita dagli Stati Uniti. Questo secondo processo, che è stato oggetto di ricorso dinanzi alla Corte, ha dato luogo al caso Fogarty.

53. La Corte rileva che il caso in esame si distingue dal caso Fogarty in quanto non riguarda l’assunzione ma il licenziamento di un membro del personale locale dell’ambasciata. A dispetto di questa differenza la Corte ritiene che la conclusione quanto all’esistenza di uno scopo legittimo rispetto alle restrizioni del caso Fogarty si applica ugualmente nel caso di specie. Dunque è opportuno esaminare nel caso attuale se la restrizione contestata al diritto di accesso al giudice è stata proporzionata rispetto allo scopo perseguito.

54. Già nella sentenza sul caso Fogarty, la Corte ha notato l’esistenza di una tendenza in diritto internazionale e comparato che va verso una limitazione dell’immunità degli stati nelle controversie relative a questioni legate all’assunzione del personale, ad eccezione tuttavia di quelle riguardanti il reclutamento del personale delle ambasciate (§§ 37-38).

55. A tal riguardo la Corte rileva che l’immunità assoluta degli Stati ha subito da ormai molti anni una certa erosione. Così, nel 1979, la Commissione di diritto internazionale, era stata invitata a codificare e sviluppare progressivamente il diritto internazionale relativo alle questioni sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni. Essa ha elaborato molti progetti che sono stati sottoposti all’osservazione degli stati. Un progetto adottato nel 1991 contiene un articolo 11 relativo ai contratti di lavoro (paragrafo 28, supra). Nel 2004, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato la Convenzione sulle immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni (paragrafo 30, supra).

56. Il progetto del 1991, sul quale si fonda la Convenzione del 2004 (soprattutto sul suo articolo 11), ha introdotto un’eccezione importante in materia di immunità degli Stati sottraendo, in principio, all’applicazione della regola dell’immunità i contratti di lavoro conclusi tra uno Stato e il personale delle missioni diplomatiche corrispondente all’estero. Tuttavia questa eccezione si trova essa stessa affiancata da eccezioni in virtù delle quali, in sostanza, l’immunità si applica ugualmente con riguardo agli agenti diplomatici e consolari; nei casi in cui l’oggetto della controversia riguardi l’assunzione, il rinnovo di un’assunzione o la reintegrazione di un candidato; quando si tratta di un cittadino dello Stato datore di lavoro; o, infine, se il lavoratore e lo Stato datore di lavoro sono stati convenuti altrimenti per iscritto.

57. Il rapporto esplicativo al progetto del 1991 le norme formulate nell’articolo 11 sembrano inquadrarsi nella tendenza nascente nella prassi legislativa e convenzionale di un numero crescente di Stati (YBILC 1991 II/2 44 § 14). Non si può dire che vada diversamente per la Convenzione del 2004. D’altronde, è principio consolidato in diritto internazionale che, anche se non ratificato, una disposizione di un trattato può avere forza vincolante se essa riflette il diritto internazionale consuetudinario, sia che essa « codifichi » quest’ultimo, sia che essa dia luogo a nuove norme consuetudinarie (si vedano i casi della Piattaforma continentale del Mare del Nord, CIJ Recueil 1969, p.41, § 71). Ora, non ci sono state obiezioni particolari da parte degli Stati all’elaborazione dell’articolo 11 del progetto della Commissione di diritto internazionale, né tantomeno da parte dello Stato convenuto. Quanto alla Convenzione del 2004, la Lituania non l’ha certo ratificata ma non si è mai opposta alla sua adozione.

58. Di conseguenza, è possibile ritenere che l’articolo 11 del progetto della Commissione di diritto internazionale del 1991, così come ripreso dalla Convenzione del 2004, si applica allo Stato convenuto, a titolo di diritto internazionale consuetudinario. La Corte ne deve tener conto nel verificare se il diritto di accesso a un giudice, di cui all’articolo 6 § 1, sia stato rispettato.

59. Questa conclusione è d’altronde confermata dall’ordinamento interno lituano. Certo, l’articolo 479 del codice di procedura civile in vigore all’epoca dei fatti consacrava la regola detta dell’immunità assoluta degli Stati. Tuttavia la Corte Suprema della Lituania, riunitasi in formazione plenaria, ha adottato il 21 dicembre 2000 una decisione (la no 28) sulla « giurisprudenza dei giudici della Repubblica di Lituania relativa all’applicazione delle norme di diritto internazionale privato ». Essa vi precisava che l’articolo 479 del codice di procedura civile stabiliva una norma in virtù della quale « gli Stati stranieri [e] i rappresentati diplomatici e consolari e i diplomatici degli Stati stranieri beneficiano dell’immunità dalla giurisdizione dei giudici lituani », che questa norma non consacrava l’immunità degli Stati stranieri se non per le « relazioni giuridiche rette dal diritto pubblico ». A contrario, la regola dell'immunità non si applica alla relazioni rette dal diritto privato. Questa conclusione ha confermato la prassi della Corte Suprema che ha abbandonato la concezione assoluta in materia di immunità degli Stati (paragrafo 22, supra).
60. Tra l’altro, la Corte nota che la ricorrente non rilevava alcuna delle eccezioni enucleate nell’articolo 11 del progetto della Commissione di diritto internazionale: ella non svolgeva particolari funzioni appartenenti all’esercizio della forza pubblica. Inoltre ella non era né un agente diplomatico o consolare né una cittadina dello Stato datore di lavoro. Infine, l’oggetto della controversia era legato al licenziamento della ricorrente.
61. La Corte rileva, in particolare, che la ricorrente era una centralinista nell’ambasciata polacca, incaricata soprattutto di registrare le conversazioni internazionali, di dattilografare testi, di inviare e ricevere fax, di fotocopiare documenti, di fornire informazioni e di aiutare nell’organizzazione di alcuni eventi. Né la Corte Suprema della Lituania né il Governo convenuto hanno potuto dimostrare che tali funzioni erano oggettivamente connesse ad interessi superiori dello Stato polacco. Se l’allegato al contratto di lavoro precisava che la ricorrente avrebbe potuto essere chiamata a svolgere altri lavori su richiesta del capo della rappresentanza, non risulta dagli atti – e il Governo non ha del resto apportato alcuna precisazione a tal riguardo – che ella abbia effettivamente eseguito dei compiti legati all’esercizio della sovranità dello Stato polacco.

62. Nella sua sentenza del 25 giugno 2001, la Corte suprema ha precisato che, per determinare la sua competenza nelle controversie di lavoro che coinvolgono una missione o un’ambasciata straniera, bisogna stabilire in ogni caso se il rapporto di lavoro di cui si tratta rientra nella sfera del diritto pubblico (acta jure imperii) o in quella del diritto privato (acta jure gestionis). Nella specie, tuttavia, la Corte Suprema ha dichiarato di non aver ottenuto alcuna informazione che le permettesse di stabilire il campo delle « effettive funzioni » della ricorrente. Essa si è allora fondata unicamente sul fatto che la Polonia ha eccepito l’immunità dalla giurisdizione per concludere che le funzioni di cui l’interessata è stato investita « facilitavano in una certa misura l’esercizio da parte della Repubblica di Polonia delle sue funzioni sovrane » (paragrafo 18, supra).

63. Trattando dell’importanza che avrebbero potuto avere le funzioni in questione per la sicurezza dello Stato polacco, criterio fissato ulteriormente dall’articolo 11 § 2 d) della Convenzione del 2004, la semplice allegazione che la ricorrente avrebbe potuto avere accesso a certi documenti o avrebbe potuto sentire delle conversazioni telefoniche confidenziali in ragione delle sue funzioni, non è sufficiente. In questo contesto è opportuno non perdere di vista che all’origine del licenziamento della ricorrente e del processo che ne è seguito, c’erano dei fatti costitutivi di una violenza sessuale constatata dal mediatore lituano per le pari opportunità, che era stato adito dalla ricorrente. Ora, tali fatti non possono trascurarsi per mettere in causa gli interessi dello Stato polacco in materia di sicurezza.

64. Infine, quanto alle difficoltà che potrebbero incontrare le autorità lituane rispetto all’esecuzione nei confronti della Polonia di un’eventuale sentenza lituana favorevole alla ricorrente, tali considerazioni non potrebbero che far fallire un’applicazione corretta della Convenzione.

65. In conclusione, accogliendo nella specie l’eccezione basata sull’immunità degli Stati e dichiarandosi incompetenti a statuire sulla domanda della ricorrente, le autorità giurisdizionali lituane, avendo mancato di conservare un rapporto ragionevole di proporzionalità, hanno oltrepassato il loro margine di apprezzamento e hanno così recato pregiudizio alla sostanza stessa del diritto della ricorrente di accedere a un giudice.

66. Pertanto, c’è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.

III. SULL'APPLICAZIONE DELL'ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

67. In base all’articolo 41 della Convenzione,
« Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto dell’Alta Parte Contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa. »

A. Danni

68. La ricorrente domanda una somma di 327 978,30 Litai lituani (LTS) (94 988 EUR circa) per il danno patrimoniale che ella avrebbe subito dal 22 novembre 1999 al 30 giugno 2009. A titolo di danno non patrimoniale ella richiede 350 000 LTS (101 367 EUR circa).

69. il Governo sostiene che le pretese della ricorrente, sia per il danno patrimoniale che per il danno non patrimoniale, sono eccessive, non giustificate e prive del nesso di causalità con la violazione allegata della Convenzione.

70. La Corte afferma innanzitutto che quando un individuo, come nel caso di specie, è stato vittima di un processo inficiato da trasgressioni alle esigenza dell’articolo 6 della Convenzione, un nuovo processo o una riapertura del caso su richiesta dell’interessato è in principio un mezzo adeguato per riparare la violazione lamentata (caso Sejdovic c. Italia [GC], ricorso no 56581/00, § 126, CEDH 2006-II ; si veda anche, mutatis mutandis, il caso Öcalan c. Turchia [GC], ricorso no 46221/99, § 210, CEDH 2005-IV). La Corte rileva poi che la sola ragione da citare per concedere una soddisfazione equa risiede nella specie nel fatto che la ricorrente non ha potuto godere delle garanzie di cui all’articolo 6. La Corte non può certo speculare su quella che sarebbe stata la conclusione del processo nel caso contrario, ma non ritiene irragionevole pensare che l’interessata ha subito una perdita di chances (caso Colozza c. Italia, sentenza del 12 febbraio 1985, Serie A no 89, § 38 ; caso Pélissier e Sassi c. Francia [GC], ricorso no 25444/94, § 80, ECHR 1999-II). A ciò si aggiunge un pregiudizio morale che la constatazione della violazione della Convenzione risultante nella presente sentenza non è sufficiente a riparare. Giudicando secondo equità, come vuole l’articolo 41, la Corte concede alla ricorrente10 000 EUR, compensando tutti i capi di danno.

B. Costi e spese

71. La ricorrente richiede una « somma adeguata », senza indicare l’ammontare, destinata a coprire i costi e le spese afferenti al processo dinanzi alla Corte.

72. Il Governo sostiene che, come non c’è stata violazione dell’articolo 6 nel caso di specie, così la domanda della ricorrente deve essere rigettata.

73. La Corte nota che la ricorrente ha beneficiato del patrocinio gratuito dinanzi ad essa. La sua domanda non è accompagnata da documenti giustificativi di natura tali da dimostrare che la somma versata all’interessata dal Consiglio d’Europa per il gratuito patrocinio non copre in modo adeguato tutti i costi e tutte le spese sostenute nell’ambito del processo svoltosi dinanzi alla Corte.

74. Pertanto la Corte rigetta la domanda della ricorrente avanzata a questo titolo.

C. Interessi moratori

75. La Corte ritiene appropriato calcolare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse marginale ufficiale praticato dalla Banca Centrale Europea, maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÁ,

1. Dichiara che l’articolo 6 § 1 della Convenzione si applica nel caso di specie e che è stato violato;

2. Dichiara

a) che lo Stato convenuto dovrà versare alla ricorrente, entro tre mesi, 10 000 EUR (diecimila euro), più tutto l’ammontare che può essere dovuto a titolo di imposta, per i danni patrimoniali e non patrimoniali, da convertire in Litai lituani al tasso applicabile alla data del regolamento;
b) che allo compimento del decorso del suddetto termine e fino al versamento, quest’importo sarà maggiorato di interessi semplici ad un tasso pari al tasso di interesse marginale ufficiale della Banca Centrale Europea praticato durante questo periodo, aumentato di tre punti percentuali;

3. Rigetta la domanda di equa soddisfazione per la restante parte.

Redatta in francese e in inglese, successivamente letta in udienza pubblica nel Palazzo dei diritti dell’uomo, a Strasburgo, il 23 marzo 2010.

Johan Callewaert Jean-Paul Costa Cancelliere aggiunto Presidente

Alla presente sentenza si trovano allegate, in conformità agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento della Corte, le seguenti opinioni:

– l’opinione concordante del giudice Cabral Barreto, alla quale si unisce il giudice Popović ;
– l’opinione concordante del giudice Malinverni, alla quale si uniscono i giudici Casadevall, Cabral Barreto, Zabrebelsky e Popović.

J.-P.C. J.C.


OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE CABRAL BARRETO, A CUI SI UNISCE IL GIUDICE POPOVIĆ

Noi siamo d’accordo con la maggioranza su tutto il dispositivo della sentenza.

Per contro, per quanto concerne il ragionamento, noi vogliamo separarci dalle affermazioni fatte al paragrafo 66 - « anche se non ratificato, una disposizione di un trattato può avere forza vincolante se essa riflette il diritto internazionale consuetudinario » - e 67 « l'articolo 11 del progetto della Commissione di diritto internazionale del 1991, così come è stato ripreso dalla Convenzione del 2004, si applica allo Stato convenuto, a titolo di diritto internazionale consuetudinario ».

Per noi un trattato internazionale non ratificato e le sue disposizioni non hanno mai forza vincolante; è la ratifica che dà loro questa forza vincolante.

Ciò che ha forza vincolante è il diritto internazionale consuetudinario, e poco importa se è codificato o non codificato.

Ci sembra che i paragrafi §§ 66 e 67 avrebbero dovuto essere formulati in modo da riflettere questa concezione a scanso di ogni equivoco.

______________________

1 Si veda l’opinione concordante dei giudici Rozakis, Spielmann, Ziemele e Lazarova Trajkovska allegata alla sentenza sul caso Salduz c. Turchia (GC, ricorso n° 36391/02 del 27 novembre 2008).
2 Si vedano le mie opinioni concordanti comuni a quelle del giudice Spielmann allegate alle sentenze sui casi Vladimir Romanov c. Russia (ricorso n° 41461/02 del 24 luglio 2008) e Ilatovskiy c. Russia (ricorso n° 6945/04 del 9 luglio 2009).
3 Si vedano le mie opinioni concordanti comuni a quelle del giudice Spielmann allegate alle sentenze sui casi Fakiridou et Schina c. Grecia (ricorso n° 6789/06 del 14 novembre 2008), Lesjak c. Croazia, (ricorso n° 25904/06 del 18 febbraio 2010) e Prežec c. Croazia (ricorso n° 48185/07 del 15 ottobre 2009). Stato condannato anche le misure che le sembrano più adeguate per riparare tale violazione.
______________________

OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE MALINVERNI, A CUI SI UNISCONO I GIUDICI CASADEVALL, CABRAL BARRETO, ZAGREBELSKY E POPOVIĆ

1. Al paragrafo 79 la sentenza afferma che « quando un individuo, come nel caso di specie, è stato vittima di un processo inficiato da trasgressioni alle esigenza dell’articolo 6 della Convenzione, un nuovo processo o una riapertura del caso su richiesta dell’interessato è in principio un mezzo adeguato per riparare la violazione lamentata ».

2. Mi rincresce che questo principio non sia riflesso nel dispositivo della sentenza, la quale si limita ad affermare che lo Stato convenuto deve versare alla ricorrente 10 000 € per i danni patrimoniali e non patrimoniali.1

3. È importante sottolineare questo punto, perché non bisogna dimenticare che le indennità di cui la Corte ordine l’erogazione alle vittime di una violazione della Convenzione rivestono, secondo la lettera e lo spirito dell’articolo 41, un carattere sussidiario.2 Ogni volta che sia possibile, la Corte dovrà sforzarsi di ripristinare lo statu quo ante. Ciò che la Corte afferma al paragrafo 79 riveste, ai miei occhi, una grande importanza. In effetti, essa vi ha riaffermato il principio fondamentale secondo il quale il miglior modo di riparare una violazione dell’articolo 6 consiste nella riapertura del processo, ogni volta che sia possibile e se il ricorrente lo desidera.

4. Inoltre, è risaputo se le motivazioni di una sentenza permettono agli Stati contraenti di conoscere le ragioni per le quali la Corte è pervenuta a una constatazione della violazione della Convenzione o all’assenza di una tale constatazione, e rivestono a tal riguardo un’importanza determinante per l’interpretazione della Convenzione, è però il dispositivo che vincola le parti, ai sensi dell’articolo 46 § 1 della Convenzione.3

5. Infine, in base all’articolo 46 § 2 della Convenzione, il controllo sull’esecuzione delle sentenze della Corte spetta al Comitato dei Ministri. Questo non significa, tuttavia, che la Corte non debba giocare alcun ruolo in quest’ambito e che non debba adottare delle misure atte a facilitare il compito del Comitato dei Ministri nell’espletamento delle sue funzioni. A questo proposito, è essenziale che, nelle sue sentenze, la Corte non si limiti a dare una descrizione il più precisa possibile della natura della violazione constatata, ma, nel dispositivo, è essenziale che indichi allo

6. Un risarcimento pecuniario non è d’altronde sempre appropriato per riparare i danni causati alla vittima. Nel caso di specie, l’origine della controversia risiede nel fatto che la ricorrente aveva sostenuto dinanzi al mediatore per le pari opportunità di aver subito una violenza sessuale da parte di uno dei suoi colleghi, membro del personale diplomatico dell’ambasciata. Dopo un’indagine, il mediatore aveva steso un rapporto secondo cui la ricorrente era effettivamente stata vittima di una violenza sessuale (paragrafo 13). Ammalatasi a causa di un clima di tensione che viveva sul suo lavoro, ella si metteva in malattia per due mesi circa, a seguito dei quali fu licenziata per assenza dal lavoro (paragrafi 14 e 15). Così la ricorrente adiva i giudici per licenziamento illegittimo, senza tuttavia domandare la sua reintegrazione all’ambasciata (paragrafo 16). Come rileva la sentenza « è opportuno non perdere di vista che all’origine del licenziamento della ricorrente e del processo che ne è seguito, c’erano dei fatti costitutivi di una violenza sessuale » (paragrafo 72).

7. Si può dedurre da quanto precede che la ricorrente desiderava ottenere un risarcimento (paragrafo 16), ma soprattutto un provvedimento giurisdizionale che dichiarasse il carattere illegittimo del suo licenziamento (paragrafo 41). Ella ha probabilmente ancora oggi un interesse a ottenere tale dichiarazione. In queste condizioni, sono dell’avviso che solo una riapertura del processo sia di natura tale da dare piena soddisfazione alla ricorrente.

8. In questo caso, prevedendo l’ordinamento lituano la possibilità della riapertura del processo nazionale dopo una sentenza di condanna della Corte, tale soluzione, a mio avviso, doveva essere preferita rispetto a quella di accordare un risarcimento alla vittima. Per questa ragione avrei preferito che il diritto della ricorrente di domandare la riapertura (o piuttosto l’apertura) del processo, fosse inserito nel dispositivo della sentenza.

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