mercoledì 22 febbraio 2012

Sentenza della Corte costituzionale del 18-06-1979, n. 48

L'ordinamento italiano si è adeguato, ancor prima dell'entrata in vigore della Costituzione, alla norma di diritto internazionale, generalmente riconosciuta, che ha sancito l'obbligo degli Stati di riconoscere reciprocamente ai propri rappresentanti diplomatici l'immunità dalla giurisdizione civile, anche per gli atti posti in essere quali privati individui. Tale immunità implica una deroga alla giurisdizione non incompatibile con gli artt. 2, 3, 10, 11, 24 e 102 Cost., in quanto necessaria a garantire l'espletamento della missione diplomatica, istituto imprescindibile del diritto internazionale, dotato anche di garanzia costituzionale, come risulta dall'art. 87 Cost., secondo cui il Presidente della Repubblica "accredita e riceve i rappresentanti diplomatici". (In applicazione di detto principio è stata dichiarata non fondata, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 11, 24 e 102 Cost., la questione di legittimità costituzionale concernente l'immunità diplomatica dalla giurisdizione civile dello Stato accreditatario, previsto dall'art. 2 della L. 9 agosto 1967, n. 804, nella parte in cui dà esecuzione all'art. 31, paragrafi I e III della Convenzione di Vienna 18 aprile 1961).



Svolgimento del processo - Motivi della decisione

l.-Alla Corte è stata prospettata questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 9 agosto 1967, n. 804, nella parte in cui dà esecuzione all'art. 31, paragrafi 1° e 3°, della Convenzione di Vienna del 18 aprile 1961 - secondo cui l'agente diplomatico gode dell'immunità dalla giurisdizione civile dello Stato accreditatario - per asserito contrasto con gli artt. 2, 3, primo comma, l'art. 10, secondo comma, gli artt. 11, 24, primo comma e l'art. 102 Cost., primo comma.

Gli invocati principi costituzionali sarebbero violati, ad avviso del giudice a quo, per i seguenti motivi:

a) la carenza di giurisdizione civile contrasterebbe con l'art. 102 Cost. che attribuisce tale funzione ai giudici, né sarebbe invocabile l'art. 11 Cost., perché la ravvisata limitazione di sovranità potrebbe essere giustificata solo da un trattato inter nazionale diretto in modo specifico ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni e non dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, avente altre finalità;

b) l'immunità dalla giurisdizione civile escluderebbe la garanzia di diritti inviolabili dell'uomo, tra cui v'è quello di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi, risultando eccessivamente onerosa l'azione di fronte ai giudici dello Stato accreditante (artt. 2 e 24 Cost.);

c) la stessa immunità creerebbe una disparità di trattamento tra cittadini e stranieri o anche tra stranieri. Infatti, i diplomatici, pur restando titolari del diritto di azione, avrebbero il privilegio di non poter esser convenuti in giudizio, con conseguente violazione dell'art. 3, primo comma, e dell'art. 10, secondo comma, Cost.

2.-Occorre innanzitutto individuare la fonte della norma impugnata, deducibile, secondo l'ordinanza di rimessione, dall'ordine di esecuzione di cui alla legge 804 del 1967, che avrebbe adeguato l'ordinamento italiano alle clausole della Convenzione internazionale configuranti l'immunità dell'agente diplomatico dalla giurisdizione civile dello Stato ospitante, con talune limitazioni che, nella specie, non interessano.

La Corte ritiene che l'ordinamento italiano si è adeguato, ancor prima dell'entrata in vigore della Costituzione, alla norma di diritto internazionale, generalmente riconosciuta, che ha sancito l'obbligo degli Stati di riconoscere reciprocamente ai propri rappresentanti diplomatici l'immunità dalla giurisdizione civile, anche per gli atti posti in essere quali privati individui.

In proposito la concorde dottrina internazionalistica, numerosi atti di legislazione dei singoli ordinamenti statali, la giurisprudenza consolidata dei giudici interni e soprattutto la consuetudine più che secolare degli Stati nelle loro reciproche relazioni, dimostrano, senza possibilità di dubbio, la nascita di una norma generale avente per oggetto tale immunità, che e riconosciuta all'agente diplomatico per la sua attività privata e non in quanto agisca quale organo dello Stato straniero: in tale ipotesi, infatti, la sua attività sarebbe imputabile allo Stato stesso. La consuetudine è sorta non per attribuire un privilegio personale, ma al fine di assicurare in ogni caso che il diplomatico possa compiere il suo ufficio. Invero l'immunità dalla giurisdizione civile, sia pure con talune eccezioni, è apparsa necessaria proprio per garantire la piena indipendenza nell'espletamento della missione: ne impediatur legatio.

3.- La prospettazione della questione, così come formulata dal giudice a quo, riferita all'ordine di esecuzione di cui alla legge n. 804 del 1967, in relazione all'art. 31, paragrafi 1° e 3° della Convenzione di Vienna, appare solo formalmente esatta perché, sul punto che interessa, la disposizione pattizia è meramente ricognitiva della norma di diritto internazionale generale sopra descritta.

Il fondamento della questione va considerato, pertanto, con riferimento a quest'ultima norma, ed il vero oggetto del giudizio, cui va rivolto l'esame della Corte, concerne la compatibilità, con gli invocati principi costituzionali, della norma interna di adeguamento alla consuetudine internazionale generale. Infatti, già da lungo tempo, ad essa si è conformato, come è pacifico secondo dottrina e giurisprudenza, l'ordinamento italiano, per effetto del principio di adeguamento automatico alle Norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, ora espressamente previsto dall'art. 10, primo comma, della Costituzione.

Rimane allora da considerare come possa armonizzarsi l'immunità in questione con le disposizioni costituzionali di raffronto. Ritiene la Corte che il denunciato contrasto sia soltanto apparente e risolubile applicando il principio di specialità. Invero le deroghe alla giurisdizione derivanti dall'immunità diplomatica non sono incompatibili con le Norme costituzionali invocate, in quanto necessarie a garantire l'espletamento della missione diplomatica, istituto imprescindibile del diritto internazionale, dotato anche di garanzia costituzionale, come risulta dall'art. 87 Cost., secondo cui il Presidente della Repubblica «accredita e riceve i rappresentanti diplomatici».

Occorre comunque affermare, più in generale, per quanto attiene alle Norme di diritto internazionale generalmente riconosciute che venissero ad esistenza dopo l'entrata in vigore della Costituzione, che il meccanismo di adeguamento automatico previsto dall'art. 10 Cost. non potrà in alcun modo consentire la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, operando in un sistema costituzionale che ha i suoi cardini nella sovranità popolare e nella rigidità della Costituzione (art. l, secondo comma e Titolo VI della Costituzione).

A questo punto è ultronea ogni considerazione in ordine all'ambito di applicazione dell'art. 11 Cost. ed alla immunità del diplomatico dagli atti del processo esecutivo civile.

P.Q.M.


la Corte Costituzionale

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale concernente l'immunità diplomatica dalla giurisdizione civile dello stato accreditatario (art. 2 della legge 9 agosto l967, n. 804, nella parte in cui dà esecuzione all'art. 31, paragrafi 1° e 3° della Convenzione di Vienna 18 aprile 1961), sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, dell'art. 10, secondo comma, degli artt. 11, 24, primo comma, dell'art. 102, primo comma, della Costituzione, con l'ordinanza del Tribunale di Roma in epigrafe indicata.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 giugno 1979.

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