mercoledì 22 febbraio 2012

Cassazione civile Sezione I, 05-12-1992, n. 12951

All'ambasciatore presso il governo italiano di uno stato estero sono attribuite, anche in base alla l. 9 agosto 1967 n. 804 (ratifica della convenzione di Vienna del 18 aprile 1961 sulle immunità diplomatiche) funzioni di rappresentanza all'interno dello stato presso il quale è accreditato e di tutela degli interessi dello stato di cui è rappresentante e, pertanto, ex art. 75 c.p.c., gli sono attribuiti anche i poteri di rappresentanza processuale avanti l'autorità giudiziaria italiana.
Cass. civ. Sez. I, 05-12-1992, n. 12951 Soc. Racino pictures c. Ambasciata Rep. Iran e altri
FONTI
Corriere Giur., 1993, 584 nota di ZENO ZENCOVICH
Dir. Informazione e Informatica, 1993, 373
Giust. Civ., 1993, I, 2156
Foro It., 1994, I, 561 nota di SALERNO
Riv. Dir. Internaz., 1993, 455

Svolgimento del processo
Con citazione del 28 maggio 1984 l'Ambasciatore plenipotenziario e rappresentante della Repubblica Islamica dell'Iran presso la Repubblica italiana, Gholamali Heydari Khajepour, conveniva davanti al Tribunale di Roma la Racing Pictures soc. a r.l. e la Titanus S.p.A., esponendo che esse erano, rispettivamente, produttrice e distributrice del film "Dolce e selvaggio", diretto dai registi Antonio Climati e Mario Morra; che tale film, presentato al pubblico come documentario, conteneva una sequenza particolarmente violenta e raccapricciante, rappresentante un uomo (indicato dal commento parlato come militare iracheno) legato per le braccia a due autocarri che, messi in moto in senso opposto, ne provocavano lo squartamento; che il commento parlato indicava i carnefici come "regolari iraniani"; che nessuna delle scene costituenti la sequenza in questione conteneva elementi idonei a rendere verosimile l'attribuzione dei fatti rappresentati all'esercito regolare iraniano; che non veniva indicata la provenienza del filmato; che quindi tutto il brano appariva obiettivamente arbitrario nella sua attribuzione e che da ciò scaturiva una grave lesione della reputazione della nazione iraniana presso quella italiana e del rispetto a cui essa aveva diritto.
Sulla base di tali assunti l'attore chiedeva che il Tribunale dichiarasse che le società convenute, i registi ed il montatore de film (che, peraltro, non erano convenuti in giudizio) avevano leso gravemente la reputazione e l'onere della nazione iraniana; confermasse l'ordinanza pretorile inibitoria già pronunciata il 29 marzo 1984; condannasse in solido le società convenute al risarcimento dei danni, quantificati in Lire un miliardo; ordinasse la pubblicazione di un estratto della sentenza su alcuni quotidiani.
La Soc. Racing Pictures si costituiva, resistendo alla domanda, facendo fra l'altro presente che il film non aveva alcun intendimento offensivo e spregiativo e che l'episodio in questione non era attribuito a soldati dell'esercito iraniano, bensì ad "irregolari iraniani" e che pertanto non vi era alcun riferimento allo Stato ed alla nazione iraniana.
Con sentenza del 31 dicembre 1986 il Tribunale accertava che la sequenza oggetto di causa del film "Dolce e selvaggio" era frutto di una falsificazione e condannava la soc. Racing Pictures a r.l., produttrice del film, a risarcire alla parte attrice i danni, liquidati in Lire 500.000.000; inibiva alla Racing Pictures (nonché alla Titanus Produzione S.p.A., società distributrice del film) di far circolare nel territorio italiano copie del film "Dolce e selvaggio" contenenti la scenda dell'uccisione di un soldato irakeno a mezzo di due autocarri ed il commento parlato che attribuiva tale uccisione ad irregolari iraniani; ordinava la pubblicazione per estratto della sentenza; condannava la Racing Pictures al rimborso delle spese processuali a favore di parte attrice.
Proponeva appello la Racing Pictures, deducendo: a) il difetto di legittimazione, in capo all'Ambasciatore della Repubblica islamica dell'Iran, ad agire in giudizio; b) l'inesistenza del reato produttivo dell'asserito danno morale; c) l'incompatibilità della condanna al pagamento della somma di Lire 500.000.000 con la funzione riparatoria del risarcimento.
Si costituiva in appello l'ambasciatore della Repubblica dell'Iran presso la Repubblica Italiana chiedendo il rigetto dell'appello, e, in via incidentale, che l'ammontare della condanna fosse elevato a lire un miliardo, con pubblicazione per estratto dell'emananda decisione.
La Titanus restava contumace.
Con sentenza del 27 dicembre 1989 la Corte d'appello di Roma rigettava i due appelli e condannava la Racing Pictures a rimborsare alla controparte i tre quarti delle spese (liquidati in Lire 16.970.000), compensando il residuo quarto, ed osservando:
- che l'attività degli agenti diplomatici, in quanto organi esterni dello Stato presso quello dove sono accreditati, non si esaurisce nel campo strettamente politico e pubblico, ma si estende ad ogni altro campo, compreso quello privatistico, nel quale sia necessario tutelare gli interessi dello Stato a cui appartengono;
- che sussisteva il reato produttivo del danno non patrimoniale reclamato, in quanto la sequenza incriminata, poi accertata frutto di falsificazione, integrava certamente il delitto di diffamazione, in quanto lesiva dell'onore e della reputazione dello Stato iraniano, perché il falso acclarato dal C.T.U. era tale da indurre lo spettatore medio a ritenere lo Stato iraniano quanto meno connivente con gli autori dell'atroce fatto di sangue descritto, per cui non poteva rilevare che vi fosse anche la prova di un'intenzione di diffamare, atteso che trattavasi di reato a dolo generico, per cui, una volta che apparisse evidente la coscienza e volontà di usare espressioni e/o immagini diffamatorie, non si poteva attribuire rilevanza ai fini o moventi dell'agente;
- che non si poteva escludere il dolo generico, dal momento che la Racing Pictures aveva ammesso che la massima parte del film era stata realizzata con riprese effettuate direttamente dalla società produttrice, la quale aveva continuato a divulgarlo con utilizzazioni di fotogrammi attinenti alla scena dello squartamento, avvenuto ben oltre l'epoca del procedimento ex art. 700 c.p.c., senza fornire alcuna prova circa l'asserita provenienza "aliunde" del filmato;
- che il danno morale non si identifica solo con fenomeni psichici esclusivi delle persone fisiche, in quanto è il complesso delle conseguenze dannose dell'illecito non incidenti nella sfera patrimoniale del soggetto leso, comprendente gli effetti lesivi che prescindono dalla personalità psicologica del danneggiato;
- che le persone giuridiche possono assumere la veste di soggetti passivi del delitto di diffamazione, perché titolari di situazioni giuridiche che richiedono riconoscimento e tutela, quali quelle dell'identità, dell'onore e della reputazione; che pertanto si configurava la lesione di un interesse protetto di natura non patrimoniale in capo alla Repubblica dell'Iran, reintegrabile in base al combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.;
- che la Racing Pictures aveva provveduto, in dipendenza del procedimento pretorile, a far tagliare dalle copie del film circolanti in Italia le sequenze ed il commento in questione, nonché ad invitare la distributrice soc. Titanus a comunicare la richiesta di taglio a tutti gli agenti operanti in Italia; ma questo, anche unitamente all'ottemperanza alle condanne concernenti la pubblicazione, non era esaustivo del risarcimento di ogni danno non patrimoniale già cagionato, definito dalla particolare ripugnanza del fatto rappresentato, dalla grande diffusività e forza suggestiva del mezzo cinematografico, dalla probabilità di strumentalizzazioni a causa della guerra in corso, dalla prospettazione di effetti lesivi per un'intera organizzazione statuale;
- che la valutazione del pregiudizio residuato non poteva essere fatta altrimenti che in via equitativa e la Corte riteneva rispondente a giustizia la quantificazione già operata dal Tribunale, mentre la pubblicità delle decisioni di merito disposta dall'impugnata sentenza appariva congrua, in relazione agli interessi tutelati;
- che, quanto alle spese di lite, considerato l'esito della lite, si reputava di porre a carico della Racing Pictures i tre quarti di quelle dell'appellato, compensando fra le parti il residuo quarto.
Avverso la suddetta sentenza la Racing Pictures ha proposto ricorso per cassazione, illustrato con memoria.
Il signor Heydari Gholamali Khajepour, ambasciatore della Repubblica islamica dell'Iran presso il Governo italiano, ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Col primo motivo, la società ricorrente denuncia la violazione delle norme regolatrici della legittimazione ad agire, in relazione all'art. 360 n. 4 c.p.c., nonché l'insufficienza di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c., osservando che essa aveva contestato che la qualità di ambasciatore importi la legittimazione ad agire, e cioé il potere di decidere, instaurare e condurre, in nome e per conto dello Stato Iraniano, il giudizio de quo, posto che la legittimazione ad agire, quale presupposto processuale, è regolata dalla lex fori e cioé dalla legge italiana, che contiene come regole fondamentali sia che chi agisce in giudizio in rappresentanza di altri deve provare l'esistenza e la portata dei suoi poteri, sia che l'azione dell'Ente pubblico debba essere disposta dagli organi competenti (si pensi agli esempi del Sindaco, che sta in giudizio previa deliberazione consiliare o di giunta).
Secondo la ricorrente non esiste nel nostro ordinamento alcuna norma interna o di adeguamento ad accordi internazionali che stabilisca un'illimitata latitudine di poteri dell'ambasciatore straniero quale rappresentante del suo paese; al contrario, l'azione dell'Italia contro lo straniero innanzi al giudice straniero viene disposta dal Ministro, qualora si tratti di giudizio relativo ad una singola amministrazione, o dal Presidente del Consiglio dei Ministri quando il giudizio involga lo Stato o il governo nella sua globalità. Non giova, secondo la ricorrente, il richiamo a Cass. n. 2898 del 1962, perché dalla Convenzione di Vienna resa esecutiva con legge n. 804 del 1967 si evince che l'ambasciatore è addetto a (ed è investito di poteri per) le relazioni fra gli Stati e non ha poteri in materia privata (salva l'attività di gestione economica dell'ambasciata, nella quale l'ambasciatore non svolge la sua funzione, bensì quella di un mero amministratore di beni).
Occorre stabilire la competenza di tale organo e se in essa rientri la determinazione di instaurare un giudizio civile; non può trarsi dal diritto internazionale la onnicomprensiva competenza dell'ambasciatore, senza alcuna indicazione o specificazione in proposito e non può legarsi quella competenza all'asserita natura di organo. Secondo la ricorrente, vi sarebbe una aberrante conseguenza dal principio per cui l'ambasciatore avrebbe legittimazione a deliberare ed instaurare un giudizio, per il semplice fatto di essere tale, perché allora lo Stato Straniero potrebbe, ex art. 4 n. 1 c.p.c., essere convenuto sempre innanzi al giudice italiano.
Osserva la ricorrente che era necessario che l'ambasciatore fornisse prova dei suoi poteri e della deliberazione dell'organo superiore iraniano in ordine all'instaurazione del giudizio.
Il motivo è infondato.
A norma dell'art. 27 disp. prel. c.c. deve applicarsi la lex fori, della quale fa parte la legge 9 agosto 1967 n. 804, contenente la ratifica di alcune Convenzioni, fra cui quella di Vienna del 18 aprile 1961 sulle relazioni diplomatiche, che all'art. 3 dispone che le funzioni di una missione diplomatica consistono segnatamente ("notamment") nel rappresentare la Stato accreditante presso lo Stato accreditario; nel proteggere nello Stato accreditario gli interessi dello Stato accreditante e dei suoi membri ("ressortisants"), dentro i limiti ammessi dal diritto internazionale, etc, etc.
Fra gli interessi da proteggere sono compresi - a parte quelli attinenti alla sfera delle relazioni pubblicistiche - anche quelli attinenti alla sfera del diritto privato, sia perché la norma pattizia (resa esecutiva in Italia) non distingue, sia perché, fra le funzioni della missione diplomatica (e del suo capo, l'ambasciatore) esiste quella della protezione degli interessi dei cittadini dello Stato estero, che evidentemente possono essere di carattere privatistico.
A maggior ragione, la suddetta tutela può riguardare anche gli interessi privatistici dello Stato accreditante. Nel campo delle relazioni sostanziali, la dottrina distingue tre tipi di atti compiuti dall'agente diplomatico:
1) atti compiuti quale organo del proprio Stato, considerato come soggetto di diritto internazionale (e cioé gli atti tipici della missione diplomatica, come la stipulazione di un accordo internazionale o la notifica di una protesta); 2) atti compiuti dall'agente diplomatico come organo del proprio Stato, che agisce nella qualità di soggetto di diritto nel suo ordinamento (per esempio, il rilascio di una certificazione o di un passaporto); 3) atti compiuti dall'agente diplomatico come organo del proprio Stato, in quanto esso appare quale soggetto di diritto nell'ordinamento dello Stato presso cui l'agente è accreditato; tali atti ricadono nella sfera dell'ordinamento locale e sono produttivi di rapporti di esso regolati, ma soggetto di tali rapporti è non l'agente diplomatico, bensì lo Stato per cui ha agito.
Tali principi, operanti nel campo sostanziale, possono trasportarsi in quello processuale solo in quanto la lex fori lo consenta. Per esempio, è ovvio che l'agente diplomatico, benché possa proteggere gli interessi sostanziali (ed anche privatistici) "de ses ressortissants" presso lo Stato accreditario, non li può rappresentare - in base alla sua mera qualità di agente diplomatico
- in giudizio, perché la legge processuale italiana esige, in tal caso, una procura (art. 77 c.p.c.). Per lo Stato straniero, invece, non può che applicarsi l'art. 75 terzo comma: "Le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello Statuto". Secondo legge (n. 1 lettera a) dell'art. 3 della legge n. 804 del 1967) lo Stato accreditante è rappresentato dalla missione diplomatica (quindi dal suo capo, che è l'ambasciatore) e, in tal caso, rappresentanza sostanziale e rappresentanza processuale dell'organo coincidono. L'estensione della rappresentanza è quella attinente alla competenza attribuita all'agente diplomatico, che non ha altri limiti se non quelli ammessi dal diritto internazionale, secondo la formula usata dalla stessa lettera b) della norma citata (per esempio, il limite della non ingerenza negli affari interni nello Stato accreditato).
L'inesistenza di un limite, non provato nella specie (neppure con riguardo all'inesistenza eventuale della condizione di reciprocità, a norma dell'art. 16 secondo comma disp. prel. c.c. e dell'art. 10 secondo comma Cost., questione che non viene fatta, con riguardo al potere dello Stato Italiano di agire davanti al giudice iraniano per ottenere il risarcimento del danno derivante da un'azione lesiva compiuta da un qualsivoglia soggetto in territorio iraniano e che, quindi, non può neppure esaminarsi) comporta l'affermazione della generale rappresentanza, estesa ai rapporti privatistici facenti capo allo Stato estero, del suo ambasciatore.
Il problema del potere di agire in giudizio, attribuito ad un altro organo che non sia quello rappresentativo (per esempio, il potere della Giunta Comunale di deliberare le azioni in giudizio "autorizzando" il Sindaco a promuoverle) è di stretto diritto positivo, attenendo all'identificazione dell'organo competente a deliberare, rispetto a quello competente a rappresentare. Con riguardo all'agente diplomatico, le due competenze coincidono, nel senso che, secondo la normativa vigente in Italia, il potere di curare gli interessi dello Stato estero in Italia, nel campo sostanziale, si accompagna ad un potere di rappresentanza, sia sostanziale, sia - in forza dell'art. 75 c.p.c. - anche processuale dell'agente stesso.
Il paragone con l'ente locale è quindi fuorviante, e meglio si può rammentare la disciplina dell'azione in giudizio dello Stato, rappresentato dall'Avvocatura erariale, per legge, senza che la controparte possa esigere la prova del mandato e della deliberazione ad esperire l'azione, e neppure possa far questione della distribuzione di competenze fra varie Amministrazioni (sent. n. 7642 del 1991, da ultimo).
E' interessante notare che l'art. 48 del t.u. 30 ottobre 1933 n. 1611 dispone che le norme del titolo III (sull'assunzione da parte dell'Avvocatura dello Stato della rappresentanza e difesa di amministrazioni non statali) possono applicarsi anche ad Amministrazioni di Stato estero ed a rappresentanze dei rispettivi governi in quanto siano attrici o convenute in giudizio da svolgersi nella Repubblica e l'Avvocatura dello Stato sia autorizzata nei modi indicati dall'art. 43 ad assumerne la rappresentanza e la difesa.

Sembra evidente, che in mancanza di tale assunzione da parte dell'Avvocatura dello Stato Italiano, le Amministrazioni dello Stato estero e le rappresentanze dei rispettivi governi (cioé le missioni diplomatiche) agiscono da sé. La previsione alternativa significa che il potere di agire spetta a tali Amministrazioni che alla rappresentanza del governo estero e ciò corrisponde ad un principio generale del diritto pubblico interno: un organo inferiore può essere sostituito da quello superiore, in quanto la competenza del secondo sia sovraordinata o comprensiva di quella del primo. Nella specie, per esempio, sembra ovvio che, in luogo e vece dell'Ambasciatore, avrebbe potuto agire l'organo superiore dello Stato iraniano, secondo il proprio ordinamento interno. Ma tale potere di sostituzione dell'organo superiore è meramente facoltativo, in caso di inazione dell'organo inferiore. Se l'organo inferiore è munito dei poteri di rappresentanza generale, li può esercitare senza necessità di ulteriore giustificazione, quando tali poteri sono fondati, come nella specie, sulla legge.
Infine, sotto il profilo della reciprocità, si assume dal ricorrente che la disciplina italiana dell'azione dello Stato contro lo straniero innanzi a giudice estero esige che tale azione, sia disposta dal Ministro competente, quando si tratti di giudizio relativo ad una specifica Amministrazione, ovvero dal Presidente del Consiglio dei ministri quando il giudizio riguardi l'intera collettività. Non esiste alcun riferimento normativo a fondamento di tali affermazioni, che sembrano smentite sia dal fatto che nella legge 23 agosto 1988 n. 400, sull'ordinamento della Presidenza del Consiglio, non vi è traccia di tale competenza esclusiva, sia dal fatto che, secondo l'art. 36 del d.P.R. 5 gennaio 1967 n. 18, i capi delle rappresentanze diplomatiche all'estero "rappresentano la Repubblica" ed hanno le funzioni di cui all'art. 37, tra cui quelle di proteggere gli interessi nazionali. Anche in tal caso si può ammettere il potere di sostituzione dell'organo rappresentativo primario del Governo della Repubblica (art. 5 legge n. 400 del 1988), ma la qualità di rappresentante "ordinario" all'estero dello Stato italiano appartiene alla Missione diplomatica, che ha le funzioni sostanziali (e cioé le competenze) proprie dettate dalla normativa internazionale già ricordata e dall'art. 37 del d.P.R. n. 18/67, le quali non escludono affatto il campo degli interessi privatistici dello Stato. Alla competenza sostanziale non può corrispondere quella processuale, comprensiva sia del potere di decidere di promuovere l'azione in giudizio, sia del potere di rappresentare in giudizio, quale organo dello Stato all'estero, purché consti della qualità.
Concludendo, deve confermarsi la sentenza impugnata sul punto in cui ha attribuito, seguendo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 2898 del 1962) la rappresentanza in giudizio dello Stato estero al suo Ambasciatore in Italia, per la tutela di un interesse patrimoniale dello Stato estero, regolato dal diritto privato (art. 2043-2059 c.c. ai sensi dell'art. 25 secondo comma disp. prel. c.c.). Con il secondo motivo, la società ricorrente denuncia la violazione delle norme che regolano il reato di diffamazione e di quelle che governano la responsabilità penale; la violazione dell'art. 44 l. 22 aprile 1942 n. 633, la motivazione incongrua in punto di responsabilità del produttore di film cinematografico (art. 360 n. 3 e n. 5 C.P.C.), osservando che nell'assumere, ai fini della responsabilità per danno non patrimoniale, il concorso del produttore nel reato di diffamazione, la sentenza ragiona, con errore logico e giuridico, come se il produttore sia autore del film, mentre è soltanto l'avente causa delle attività degli autori (soggettista, sceneggiatore, regista, autore del commento musicale, ex art. 44 legge n. 633 del 1941); e così finisce con l'attribuire incongruamente al primo condotte che, semmai, sono tenute dai secondi. (Del resto, osserva la ricorrente, quando mai si fosse voluta ipotizzare - ma è esulata dall'impostazione di parte attrice e la sentenza non ne fa neppure cenno - una culpa in vigilando del produttore rispetto agli autori, non si sarebbero potute, per questa via, far emergere una responsabilità penale del produttore e la connessa responsabilità per danni non patrimoniali).
Inoltre, la sentenza incorre in un ulteriore e grave errore quando ascrive il concorso al reato di diffamazione alla Società Racing Pictures, la quale, invece, in quanto persona giuridica, non può essere penalmente responsabile; d'altronde, il rapporto organico fra la persona fisica, che agisce per la persona giuridica, e quest'ultima, nemmeno se integrato dalla rappresentanza, vale ad imputare un crimine, con la conseguente responsabilità penale, alla persona giuridica (art. 27 Cost.); comunque - osserva la ricorrente - la Corte di merito non si è data cura d'indagare e pronunciare sull'eventuale responsabilità penale di una persona fisica ricoprente un ufficio nella società Racing; non ha cercato né indagato chi sarebbe stata questa persona fisica penalmente colpevole e perché sarebbe colpevole, né quindi ne ha colto e dimostrato il dolo, che non può presumersi a carico di chicchessia; e neppure si è pronunciata sulla responsabilità penale degli autori del film, della quale non ha potuto occuparsi, stante il mancato contraddittorio nei loro confronti; ché se la Corte avesse accertato la diffamazione da parte di tali autori, tale accertamento, oltre ad essere irrituo, non sarebbe valso a coinvolgere la società produttrice nella responsabilità penale e nel risarcimento dei danni non patrimoniali cui è tenuto l'autore del reato.
Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato. L'inammissibilità riguarda la problematica del rapporto fra la responsabilità penale degli autori indicati dall'art. 44 della legge n. 633 del 1941 e quella del produttore ex art. 45 della stessa legge, perché tale problema non è stato sollevato con i motivi d'appello, nei quali si è fatta questione soltanto dell'inesistenza del reato, ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) di guisa che il compito del giudice d'appello era soltanto quello di accertare, incidenter tantum, l'esistenza del reato, nei suoi elementi obiettivi (su questo punto non vi è censura) e soggettivi e, anche senza l'identificazione precisa dell'autore del reato, di attribuirlo ad una persona fisica del cui operato la società convenuta doveva rispondere, a titolo di responsabilità civile (v. Cass. n. 222 del 21 gennaio 1985).
A tali quesiti la Corte d'appello ha risposto con espressioni tecnicamente non esatte, ma che rendono evidente l'implicita ratio decidendi. La Corte ha ritenuto che del reato esistessero gli elementi obiettivi (la creazione di scene false, inequivocabilmente lesive dell'onore e della reputazione dello Stato iraniano); quello soggettivo (la coscienza e la volontà di usare espressioni e/o immagini diffamatorie) e che tale reato fosse stato commesso, quanto meno a titolo di concorso, con la coscienza e volontà del fatto, dal produttore del film; e ciò perché il film è stato realizzato per la massima parte (implicitamente in essa compresa quella incriminata) con riprese effettuate direttamente (non dagli autori, come i registi o sceneggiatori, del film, ma) dal produttore, che ha divulgato il film sia prima che dopo il provvedimento pretorile, con utilizzazione dei fotogrammi attinenti alla scena dello squartamento. La realizzazione (intesa non come semplice organizzazione della produzione, ma come creazione dell'opera) nonché la divulgazione sono state dalla sentenza attribuite al produttore. Poiché, però, si tratta di società di capitali, è evidentemente implicito che le operazioni materiali di creazione e diffusione, con coscienza e volontà, cioé con dolo, delle sequenze e del commento diffamatorio, sono state attribuite al soggetto-persona fisica che agiva come suo organo, cioé dall'amministratore, la responsabilità del quale, in sede civile, coinvolge anche la società da lui amministrata.
Invero, la responsabilità per danni non patrimoniali si estende a qualsiasi persona fisica o giuridica chiamata a rispondere per fatto altrui (Cass. 17 settembre 1963 n. 2549; 19 dicembre 1980 n. 6557; Cass. 21 gennaio 1985 n. 222). Nell'ambito della responsabilità per fatto illecito compiuto dall'amministratore di una società di capitali, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, si deve distinguere l'atto compiuto al di fuori dell'attività gestoria ed incidente nella sfera della sua attività individuale (di cui l'amministratore risponde ai sensi dell'art. 2043, senza impegnare la responsabilità della società amministrata) e l'atto illecito compiuto nell'ambito dell'attività gestoria (nella specie, nell'ambito della produzione e diffusione di un film, che è l'oggetto sociale della Racing Pictures), regolato dall'art. 2395 c.c. Di tale atto illecito risponde la società amministrata; il titolo di tale responsabilità, che si aggiunge a quella dell'amministratore in proprio, si può far discendere o dal rapporto organico dell'amministratore con la società, che risponde del fatto illecito dei soggetti portatori dei propri organi; ovvero dal principio dell'art. 2049 c.c., estensivamente inteso (per tale problematica, si vedano Cass. 12 giugno 1969 n. 2074; Cass. 3 novembre 1983 n. 6469, in motivazione).
Pertanto, una volta che il giudice del merito ha accertato la responsabilità penale dell'amministratore della società, quest'ultima risponde delle conseguenze civilistiche dell'illecito, ivi compreso il danno non patrimoniale, come ha correttamente ritenuto la sentenza, interpretata (al di là delle imprecise ed ellittiche espressioni usate) nell'unico modo in cui ha un senso l'attribuzione della responsabilità penale personale e delle conseguenze risarcitorie a carico della società amministrata, quale responsabile civile.
Con il terzo motivo, la soc. Racing denuncia l'errata considerazione degli elementi del danno non patrimoniale collegabile al delitto di diffamazione e conseguente falsa applicazione degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.c., nonché omessa motivazione circa il punto decisivo della controversia, consistente nella distinzione fra quegli elementi (art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c.), osservando che essa nel giudizio d'appello aveva illustrato la distinzione che deve tracciarsi nell'ambito del danno non patrimoniale da diffamazione, evidenziano che deve distinguersi fra il danno obiettivamente arrecato alla reputazione, che è il riflesso sociale dell'onore, ed il danno-dolore arrecato al sentimento personale del proprio onore (ossia, dignità personale), precisando: 1) che il primo elemento di danno non patrimoniale, nella fattispecie dedotta in giudizio, era stato già risarcito in forma specifica mediante l'eliminazione della censurata scena del film e la pubblicità conferita alla sentenza del Tribunale; 2) che il secondo elemento non era risarcibile con equivalente pecuniario, danno-dolore non essendo raffigurabile in capo alla Repubblica Iraniana, persona giuridica.
Secondo la Corte d'appello, la difesa della Racing Pictures aveva espresso l'inesatta opinione che il danno non patrimoniale si identifichi soltanto con il suo aspetto psichico (danno-dolore), ma essa non si è resa conto che, relativamente all'elemento oggettivo del danno non patrimoniale da diffamazione, cioé al danno arrecato alla reputazione, non può trovare applicazione il rimedio dell'attribuzione risarcitoria di una somma di denaro, perché il danno arrecato alla reputazione, cioé al riflesso sociale dell'onore, non può ripararsi con una somma di denaro, la quale non può fungere altrimenti che come risarcimento per il dolore sofferto, se questo esiste (e nel caso non esisteva), mentre se si tenta di estendere l'applicazione del risarcimento pecuniario nell'ambito del danno non patrimoniale alla reputazione, impiegando il denaro anche come sanzione della menomata reputazione sociale, se ne distorce la giusta e naturale funzione, tramutandola da riparatoria e compensativa in aflittiva e vendicativa. Secondo la ricorrente, tale distorsione è stata compiuta dalla corte d'appello, che ha frainteso il contenuto delle difese e non ha motivato circa il loro vero contenuto.
Il motivo è infondato.
Affrontando il problema del risarcimento del danno non patrimoniale subito da una persona giuridica (in concreto, dallo Stato) questa Corte, con sentenza 10 luglio 1991 n. 7642 ha affermato che non può condividersi l'equazione fra danno non patrimoniale e danno morale (c.d. "pecunia doloris"; e su questo punto la ricorrente concorda), perché il danno non patrimoniale comprende qualsiasi conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento, sibbene di riparazione, di guisa che, comprendendo il danno non patrimoniale anche gli effetti lesivi che prescindendo dalla personalità psicologica del danneggiato, esso è riferibile anche ad entità giuridiche prive di fisicità. Se egli enti personificati sono titolari di diritti non patrimoniali (quali quelli alla tutela dell'onore, della reputazione, dell'identità personale) anch'essi possono subire un pregiudizio non patrimoniale dalla correlativa aggressione, ed ottenerne la riparazione anche attraverso l'attribuzione di una somma di denaro, secondo un giudizio per sua natura equitativo, affidato all'apprezzamento del giudice del merito.
La Corte intende seguire tale recente orientamento ed osserva che nella specie la Corte d'appello ha ritenuto che il danno non patrimoniale costituito dal danno alla reputazione (che la stessa ricorrente ammette) non sia stato risarcito integralmente con le misure specifiche (taglio delle sequenze; pubblicazione della sentenza), in relazione agli effetti pregiudizievoli ricordati in narrativa. Si tratta di una valutazione di merito, incensurabile in questa sede.
Col quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione della tariffa professionale forense, affermando che nel calcolare gli onorari in ben 22 milioni di Lire, su di una condanna dell'ammontare già indicato, la Corte ha ampiamente scavalcato i massimi delle tariffe.
Il motivo è inammissibile, perché si limita a dedurre il superamento della tariffa, senza specificare le singole voci per le quali vi sarebbe stato tale superamento, in modo da consentire il controllo di legittimità, senza necessità di ulteriori indagini (fra le altre conformi, cfr. Sez. un. 25 gennaio 1989 n. 433).
Al rigetto del ricorso segue la condanna alle spese.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la Racing Pictures soc. a r.l. alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Lire 5.085.900, di cui Lire 5.000.000 (cinquemilioni) di onorari di avvocato.
Così deciso a Roma, il dì 11 febbraio 1992.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 5 DICEMBRE 1992

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